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“La melanconia in rapporto all’anoressia”

Partiamo dal presupposto che la melanconia non è la malinconia. La malinconia è un affetto, un sentimento che tutti noi proviamo nella vita mentre  la melanconia è qualcosa di più pregnante, strutturante per il soggetto perché è la perdita effettiva di un oggetto, di un oggetto che non si ritrova nella realtà.

 A differenza del lutto, questa differenza fondamentale viene espressa da Freud nello scritto del 1915 “Lutto e melanconia”, ebbene nel lutto abbiamo la perdita della persona amata nella melanconia invece non è così: perché questa perdita oggettuale non ha a che fare con una persona, un elemento che ritroviamo nella realtà ma è proprio una perdita strutturale del soggetto perché il soggetto melanconico si identifica con l’oggetto ed è proprio questa identificazione a causare questa profonda angoscia, questo senso di abbandono, questo senso di colpa, questo male di essere.

Un malessere forte che diventa angosciante sia per il soggetto stesso ma anche per chi ascolta. Nella clinica diventa molto difficile il lavoro con i soggetti melanconici perché la parola non ha presa, perché la parola è un oggetto esterno. Ed in quanto esterno al soggetto stesso, diventa difficile da acchiappare, da prendere, da fare suo. E quindi l’inciampo dei clinici rispetto alla cura della melanconia è proprio questo.

Gli aspetti melanconici nella anoressia, nella grave anoressia sono molto forti, molto presenti. Il corpo scarnificato, il corpo emaciato, è un corpo svuotato, è un corpo alleggerito dalla pesantezza di questo essere. Ma il cibo non rappresenta effettivamente, non è il cibo in quanto oggetto da mangiare, è una rappresentazione esterna di quello che il soggetto non riesce a rappresentare simbolicamente. E quindi si esprime attraverso il cibo, non è quella manifestazione sintomatica.

Ed è per questo che nei soggetti melanconici il corpo diventa proprio la rappresentazione strutturale, soggettiva.

Possiamo fare un esempio molto importante che ha a che fare con il gioco del rocchetto, con il Fort-Da del nipotino di Freud. Questo rocchetto che andava e veniva, dove c’era una presenza ed una assenza, rappresenta un po’ quello che nella vita del nevrotico si incontra. quindi esserci con l’oggetto e non esserci e questo gioco dell’andare e venire è la vita per il nevrotico. Ebbene per il melanconico tutto ciò non accade perché l’oggetto è sempre in “Fort”, e quindi è sempre in perdita. Non c’è possibilità di interazione fra il “Da”. Quindi c’è un “Fort” senza il Da”. Ed il lavoro dei clinici è proprio quello di riuscire a mettere assieme questo “Fort” e questo “Da! . e questo nella nostra Associazione, che porta proprio il nome del Fort-Da, è il lavoro che noi cerchiamo di fare da tanti anni con i pazienti che soffrono di disturbi del comportamento alimentare”.

 Dott.ssa Madaio Luciana