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Come “curano” le terapie espressive

Marco Alessandrini, citando il dipinto di Magritte “La fata ignorante” (1957) afferma: “L’arte è un <sapere preriflessivo>, appunto <magico> quanto una <fata>, la quale è tuttavia ignorante perché non conosce i percorsi dei propri incantesimi, sospesi tra intuizioni profonde ma pur sempre a se stanti”.

A questa citazione ne aggiungo un’altra di Munch che pure mi pare centrale rispetto al nostro discorso: “io credo che nessuno dei pittori contemporanei abbia sperimentato l’angoscia del letto di morte come è accaduto a me da piccolo. Mi è sorto spontaneo utilizzare questa esperienza come tema per <la bambina malata>… io e la mia famiglia, a cominciare da mio padre, abbiamo calpestato il pavimento nella morsa di una folle depressione… Un uccello rapace si è appollaiato nella mia mente, conficcandomi gli artigli nel cuore, trafiggendomi il pensiero con il battere delle sue ali” (E. Munch).

Munch fece diverse versioni di questo quadro che, probabilmente, furono anche un tentativo di elaborare il lutto della morte per tubercolosi di un’amata sorella.

In epoche diverse e a più livelli ci si è interrogato sul presunto valore curativo dell’”Arte” in sé. Se, però, si ripercorre le biografie di tanti artisti si può facilmente affermare che l’opera d’arte, di qualunque tipo essa sia, contrariamente a quanto sosteneva Jung nel 1916, non cura di per sé, nè determina una qualche forma di guarigione nell’autore.

Qui si apre il discorso delle arti-terapie.

Le terapie espressive arti terapie, consistono nell’utilizzo di attività di carattere artistico all’interno della psicoterapia, della riabilitazione psichiatrica o di altre terapie psicologiche. Queste tecniche una loro specificità e autonomia, possono essere applicate in un setting di tipo individuale oppure gruppale. Inoltre, è bene evidenziarlo con precisione, il loro scopo non è produrre arte bensì fare terapia: affrontare i nodi conflittuali presenti nei pazienti, facendoglieli sperimentare nella relazione, e, in definitiva, provandoli a trasformare.

Ogni attività umana ha un carattere espressivo e fa emerge ciò che noi siamo sia nella relazione con noi stessi che con gli altri. In sostanza rivela la nostra unicità, da un punto di vista biologico, genetico, fisiognomico, dei comportamenti, dei modi di sentire, di essere, di relazionarsi, ecc.

Questa affermazione, scontata nella sua evidenza, necessita, però, di alcune puntualizzazioni strettamente legate al discorso dei meccanismi alle modalità di cura delle terapie espressive.

Alla base della espressività dell’agire umano si possono individuare almeno due fattori essenziali.

Il primo è costituito da quello che potremmo chiamare l’identità profonda, il “senso di sé” (Damasio). Esso comprende sia il “senso di esistenza di se stessi” che l’ “Interazione del proprio sè con gli altri”. Entrambi questi elementi hanno una natura preverbale, Indefinibile.

Per cercare di illustrare meglio il concetto di “identità profonda” faccio riferimento a quanto afferma Adriana Cavareroi. Questa filosofa, riprendendo Hannah Arendt, dice che essa è ciò “Che ci si lascia dietro”, che non si progetta e che si manifesta della “storia di vita“ del soggetto.

Secondo l’Arendt è ciò che possono percepire di noi l’insieme degli altri che incontriamo nella nostra esistenza e non è rappresentato da quanto noi conosciamo, raccontiamo di noi stessi.

“… condivido in pieno il lascito teoretico di Hannah Arendt, per il quale questa storia di vita non si dà mai nella forma dell’autobiografia, ossia nella sua forma narcisistica (nella quale io posso dire chi sono solo raccontando la mia storia), ma si dà nella forma della biografia, nella quale è qualcun altro a raccontare la mia storia… E’ un’identità che possiamo definire relazionale, che si dà solo nella “relazione con l’altro/con l’altra“ (Adriana Cavarero).

L’altro fattore alla base della nostra espressività è costituito dall’amalgama di diversi canali: cognitivi, senso-motori, emotivi, intuitivi, logico-riflessivi, ecc. di cui siamo dotati e che agiscono “Come in una partitura orchestrale”, composta dal variare e dal comporsi dei diversi strumenti musicali e dell’intensità di ciascuno di essi.

Damasio: il comportamento umano è una sorta di partitura orchestrale nella quale si dispongono nel tempo numerose linee di esecuzione parallele. Dal variare e dal comporsi dei diversi strumenti musicali (componenti espressive di ogni attività umana) e dell’intensità di ciascuno di essi risulterebbe la <melodia> del comportamento umano.

Il “Senso di sé” nel suo esprimersi si declina continuamente, attraverso i diversi canali cognitivI, a sua volta Secondo due modalità:

Modalità logico riflessive di tipo analitico, narrativo sequenziale astratto

Modalità extra-riflessiva, legata ad elementi intuitivi di natura motoria sensoriale emotiva e non narrativi” (Una Gestalt). Filogeneticamente più antica e legata alla parte emozionale (rappresentazioni percettive amodali di Stern, memoria implicita, conoscenza incarnata, nn specchio, gli schemi emotivi di W. Bucci, etc. Punto Cosmogenetico di P.Klee; Spazio pre rappresentazionale di Oury).

Nel canale linguistico il peso maggiore è dato dalla componente logico-riflessiva (con alcune eccezioni quale ad es la poesia).

Le Terapie Espressive, invece, pur utilizzando tutti i canali, anche quelli cognitivi, sfruttano elettivamente, accentuandola, la componente extra-riflessiva di carattere corporeo-affettivo. Ciò ne rappresenta la reale specificità e non l’uso di un particolare canale comunicativo: danza, musica, immagini, etc.

“Pensiero ed emozioni hanno qualcosa in comune: … vi è pensiero nelle emozioni ed emozione nel pensiero. ma il pensiero delle emozioni contiene l’oggetto sentendolo” (I. Matte-Blanco). “spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto attorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente” (C. G. Jung).

Per illustrare meglio questi concetti mi pare essenziale riprendere il pensiero di Winnicott sul gioco.

Si può affermare che proprio mentre il bambino (ma anche l’adulto) gioca, o meglio soltanto quando gioca, è creativo. Il gioco e l’esperienza culturale hanno a che fare con quello che Winnicott chiama lo “Spazio Transizionale” e che si va a collocare tra lo psichismo e la realtà esterna. Questa area consente al bambino di compiere esperienze al di fuori di sé senza perdersi e, dunque, di scoprire il mondo.

Il prodotto artistico può configurarsi come oggetto transizionale, percepibile fuori di sé e nello stesso tempo investito di una parte molto intima di se stessi.

Dunque all’interno di una relazione terapeutica con una sua definita struttura (setting), che si configura come una “base sicura “ e attraverso il “fare creativo”, utilizzando medium espressivi diversi quali immagini, sculture, musica, danza, interazione scenico-teatrale, linguaggio orale o scritto, ecc., si stabilisce un ponte tra conscio e inconscio, una reciproca interazione tra pensare extrariflessivo e pensare logico- riflessivo. In questo modo vissuti profondi, inconsci con un’intensa connotazione corporeo-affettiva, stati mentali più o meno dolorosi, impensabili e informi, provvisti di una qualità sensorio-emotiva ancora priva di rappresentazioni mentali ben definite acquistando una forma, delimitata e stabile, si sostanziano in una presenza (disegno, suono, movimento, etc) che consente la possibilità di una elaborazione nella relazione terapeutica.

Tali oggetti, nel loro essere visibili e condivisi sia dal pz che dal terapeuta, costituiscono delle tracce concrete, stabili che si pongono “come pietre nel fiume “ (Benedetti) che aiutano a ridurre la distanza tra mondi diversi (del pz e del terapeuta), rendendo possibile lo sviluppo della terapia stessa.

In effetti quanto si è “creato” nell’ambito delle terapie espressive è una presenza che non svanisce come un sogno. Ad essa si può ritornare perché la sua esistenza è una realtà non solo psichica, ma anche materiale.In questo modo:

il paziente dialoga con le proprie immagini;

√ dialoga con il terapeuta attraverso le proprie immagini;

il terapeuta si mette in relazione con le immagini del paziente;

√ comunica con il paziente attraverso le stesse.

 Negli anni ’40, negli Stati Uniti e poi in Inghilterra l’arte terapia comincia a definirsi come disciplina. Si possono sinteticamente evidenziare due correnti principali.

Nella prima l’arte e Il prodotto artistico in sé e ne rappresenta l’agente terapeutico (Kramer). E’ la creatività la reale risorsa terapeutica in quanto attiva dei processi psicologici capaci di sublimare e strutturare l’Io. L’arteterapeuta svolge il ruolo di Facilitatore del processo creativo del paziente. Egli non ne interpreta il materiale inconscio emerso e non ne incoraggia la relazione transferale.

Nella seconda prospettiva si dovrebbe parlare più di psicoterapia fatta attraverso l’espressione artistica (Naumburg) in quanto si tende a omologare la dimensione espressiva alla terapia stessa. L’elemento di base è che pensieri ed emozioni inconsce, ancora indefinite e grezze, trovano più facilmente una forma espressiva attraverso le immagini, i suoni, il movimento che attraverso le parole (immagini come frammenti congelati di sogni).

In questi anni si è provato a trovare forme di integrazione alle due posizioni.

Ciò può avvenire evidenziando un parallelismo tra processo creativo e processo terapeutico e valorizzando le risorse offerte da entrambi gli ambiti.

Sia l’artista che il paziente sperimentano la necessità di abbandonare la logica cosciente e di accettare momentaneamente il caos come fase di transizione e di trasformazione. Condividono entrambi la paura di perdersi nell’indifferenziato, per lo sconosciuto. E, ancora, sia il processo creativo che il processo terapeutico sono esperienze di relazione con un oggetto.

Nel processo creativo come nel processo terapeutico ci si mette in relazione con il proprio mondo interno e la realtà esterna, sia essa rappresentata dai materiali artistici che dalla persona del terapeuta.

Attraverso entrambe le esperienze, quella creativa e quella terapeutica, è possibile una qualche forma di trasformazione del sé sia dell’autore che del paziente.

“In arte terapia entrambi i processi (quello creativo e quello terapeutico ndr) sono attivati e implicati e si sostengono e alimentano reciprocamente”. (Arthur Robbins)

Oggi una delle forme più sofisticate di intervento psicoterapeutico con l’utilizzo di mezzi espressivi è “Il Disegno Speculare Progressivo Terapeutrico” di Gaetano Benedetti e Maurizio Peciccia.

Questi autori hanno elaborato un metodo integrato di psicoterapia ed arte terapia basato su un reciproco scambio di disegni tra paziente e terapeuta.

Il terapeuta «risponde» alle immagini disegnate dal paziente immergendosi nel suo mondo e gli propone soluzioni alternative e possibili interpretazioni che, espresse attraverso l’immagine stessa, riescono a superare le resistenze alla comunicazione di natura psicotica. Tale tecnica in effetti si rivolge specificamente a soggetti con severe difficoltà relazionali.

La costruzione reciproca del disegno diviene così la porta d’accesso per entrare nella dimensione del paziente attraverso un punto di contatto con il suo inconscio. Un fattore terapeutico del metodo è legato sia alla possibilità del paziente di partecipare alla produzione di immagini di Sé, ma anche di rimanerne contemporaneamente a una certa distanza da esse e di autoosservare le proprie Self-Images.

Concludo con le parole di P. Klee che, in una mirabile sintesi, esprime il senso profondo di ciò che costituisce il fattore terapeutico più significativo della cura nelle terapie espressive : “l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile” (P. Klee ).

La Cavarero per spiegare questo concetto cita un racconto di Karen Blixen Narra che da bambina le raccontavano una storia: “C’era una volta un uomo che viveva presso uno stagno e una notte sentì un gran rumore, e sentendo questo rumore uscì di casa nel buio. Che cosa era successo? Lo stagno si era aperto rompendosi in un argine da cui uscivano acqua e pesci, e quest’uomo correndo nel buio e calpestando il terreno bagnato, (andava un po’ alla cieca nel buio della notte), passò parecchio tempo a riparare questa falla negli argini dello stagno andando appunto avanti e indietro. Poi, finalmente, fatto il suo lavoro se ne andò a dormire. L’indomani mattina, affacciandosi alla finestra, vide che i suoi passi sul terreno avevano disegnato la figura di una cicogna; a questo punto Karen Blixen si chiede: quando la mia vita sarà compiuta io vedrò in me stessa una cicogna o la vedranno altri riflessa in me?

Dott. F. Perozziello